Digitalic n. 35 – Internet delle cose

Se le cose parlano per noi La storia di Internet non è iniziata con quello che si dice un successo, il primo messaggio (la parola “login”) ha fatto cadere tutto il sistema e le uniche lettere davvero trasmesse furono “lo”; dopo un’ora (tanto ha richiesto il riavvio) tutto è andato bene. Era il 1969 e […]

Se le cose parlano per noi

La storia di Internet non è iniziata con quello che si dice un successo, il primo messaggio (la parola “login”) ha fatto cadere tutto il sistema e le uniche lettere davvero trasmesse furono “lo”; dopo un’ora (tanto ha richiesto il riavvio) tutto è andato bene.
Era il 1969 e la rete si chiamava ArpaNet. Spegnere e riavviare ha sempre funzionato, insomma; meno male che nessuno si è scoraggiato e ArpaNet ha continuato il suo percorso fino a diventare Internet: l’innovazione che più di ogni altra ha cambiato la nostra vita nell’ultimo secolo, in tutti i modi in cui può essere cambiata: nel lavoro, nei rapporti personali, nel modo di apprendere, di ricordare, di progettare, di comunicare.

Pensare a come si è evoluta la rete è importante per capire il fenomeno dell’Internet delle cose.
Prima metteva in contatto solo le istituzioni governative, poi le università, poi le persone ma solo come pubblico, come spettatori, successivamente gli spettatori sono diventati i protagonisti attraverso i blog inizialmente, poi con i social. Oggi comincia a costruirsi una nuova realtà connessa: quelle delle cose, degli oggetti collegati alla rete.
Quale ruolo avranno dipende molto dalla scelte di oggi, saranno un nuovo pubblico? Un esercito di oggetti che osserva quello che le persone fanno e reagisce automaticamente rendendo le cose più semplici? Questo è l’obiettivo, ma ci sono almeno 2 rischi: la complessità e la privacy.
Un numero crescente di “cose” porta inevitabilmente un problema di gestione che, in teoria, è quello che dovrebbero risolvere. Oggi siamo nell’era del mobile e usiamo l’hardware per comunicare. Ma se il mobile diventa indossabile (wearable), o addirittura si trasforma in semplici sensori, perde, per motivi di forma, la possibilità di essere comandato dalle mani, comunica necessariamente in maniera automatica.
Bastano pochi centimetri per rivoluzionare tutto: spostare un dispositivo dalle mani (come lo smartphone) al polso (come le smartband) significa concedere un certo grado di autonomia all’oggetto, ancora di più se parliamo di sensori.
Da un mondo di contenuti generati dall’uomo andiamo verso un universo di contenuti generati dalle macchine (e basati sugli uomini, sulle loro attività, preferenze, scelte, movimenti). Insomma l’hardware comunica al nostro posto.
Fa paura? Non dovrebbe, perché di fatto è già così: rilasciamo informazioni navigando usando elettrodomestici acquistando, e già esiste un’intelligenza di rete che connette queste informazioni, dà risposte al nostro posto su molteplici siti web e non solo. Il vero rischio è che il nuovo hardware connesso modifichi i nostri comportamenti. Questo però non dovrebbe terrorizzarci, perché gli oggetti che “parlano” per noi non sono mostri. Dipende sempre dal senso che gli si dà.
Da quanta umanità si riesce a mettere in un pezzo di ferro e software e se ne può mettere tanta per risolvere i veri problemi delle persone e delle imprese, che poi sono un insieme di persone unite da obiettivi comuni. C’è molto lavoro da fare e molta attenzione da mettere in ogni nuova attività che coinvolga le cose connesse, ma c’è anche tanto da scoprire, un mondo nuovo pieno di energia.
Francesco Marino


Digitalic n. 35 – Internet delle cose - Ultima modifica: 2014-12-24T07:24:40+00:00 da Francesco Marino
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