Gianluca Dettori: “Guardare al futuro senza paura di sbagliare”

Abbiamo parlato di innovazione italiana con chi la vive in prima persona: Gianluca Dettori, venture capitalist, nell’ultimo decennio ha incontrato, finanziato e seguito personalmente decine di startup nel settore digitale e medicale

Abbiamo parlato di innovazione italiana con chi la vive in prima persona: Gianluca Dettori, venture capitalist, nell’ultimo decennio ha incontrato, finanziato e seguito personalmente decine di startup nel settore digitale e medicale.

Gianluca Dettori è un imprenditore, investitore venture capitalist. Nel 1999 ha fondato Vitaminic, il primo distributore europeo di musica digitale: la sua startup ha fatto la storia e ora con dPixel finanzia altre startup che possano, come la sua, cambiare (almeno un po’) il mondo. Come fondatore e presidente di dPixel ha lanciato Barcamper, il primo programma di scounting itinerante che va alla ricerca di startup interessanti in tutta Europa.
Ha fondato ed è stato il primo presidente dello Iab (Internet Advertising Bureau) in Italia. È uno dei venture capital più conosciuto e apprezzato, non solo in Italia. In Tv è stato uno degli investitori del programma “Shark Tank” andato in onda su Italia 1. “L’originalità ci caratterizza e questa, a mio parere, è la bellezza del nostro Paese”.

Cosa andrebbe innovato in Italia?
Alla base di tutto, c’è la necessità di un cambio culturale. Andrebbe innovato il modo in cui si attribuisce importanza alle cose, soprattutto a quelle che verranno. Siamo culturalmente orientati a salvaguardare i patrimoni e il passato, mentre dovremmo imparare a guardare al futuro con un atteggiamento mentale proattivo verso il nuovo. Non vale solo per le startup, ma per tutti: manager, politici, comunicatori. Siamo sempre orientati con lo sguardo all’indietro, dovremmo girarci di 180 gradi e scoprire quello che ci sta venendo incontro, guardare le prospettive del futuro. La capacità di reagire ai cambiamenti che ci troviamo di fronte renderebbe tutto molto meno traumatico.
Dovremmo infondere una cultura dell’assunzione di rischio e spingere a correre verso il futuro, anziché subirne le conseguenze. Fallire è visto come qualcosa di molto negativo, uno stigma di cui vergognarsi. Nelle startup, invece, questo discorso è stato sdoganato da 10 anni: bisognerebbe premiare chi accetta una sfida, anche sbagliando.
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Ci sono settori e segmenti particolarmente ricettivi e attenti a investire nel mondo delle startup?
Non nello specifico. C’è però un vasto mondo di imprenditori di piccole medie imprese, tra i 50 e i 100 milioni di fatturato, che riescono a innovare e hanno successo. Sono in tutta Italia, ne ho incontrati tanti in Emilia Romagna, ma non solo. Sono di prima e seconda generazione, con un approccio smart. Riescono a distinguersi sul mercato, a trovare qualcosa che li rende unici e a diventare leader al mondo in una nicchia. Ad esempio, ho conosciuto un’azienda che produce packaging per discount di prodotti ortofrutticoli. Ha un dna di innovazione, è sensibile a quello che la tecnologia più portare nei suoi processi e prodotti. Nel suo settore è leader, la crisi non l’ha sentita perché lavora per lo più all’estero. In Italia, questa tipologia di imprenditori è molto radicato. Non sempre, però, ciò si traduce in azione sistematica di osmosi con il mondo startup e in acquisizioni.
Ci sono poi anche realtà che vanno invece proattivamente a ricercare nuove idee. Ad esempio, in Veneto, un’impresa che si occupa di automazione di cancelli investe in startup, in nuove idee e in applicazioni IoT. Sono queste le aziende che trainano l’economia italiana, grandi consumatori di innovazione. Si trovano a macchia di leopardo, il legame con le startup non è sistemico e sono più spesso Pmi che grandissime aziende, che non hanno ancora questa cultura.

Come stanno andando gli investimenti in startup italiane?

Siamo in miglioramento rispetto agli ultimi due anni, durante i quali abbiamo raschiato il fondo anche per ragioni tecniche (legate alla regolamentazione del mercato). Ora gli investimenti sono riasaliti e nei prossimi cinque anni prevedo che continueranno a crescere. Gli investitori si stanno organizzando, il Governo ha dato segnali di interesse, c’è un quadro regolatorio che permette di guardare al settore in maniera regolarizzata. Tanti segnali dicono che c’è la volontà e la condizione. Siamo all’inizio di un percorso.

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Apple, IBM, Cisco hanno investito in Italia. Il loro esempio avrà un’influenza sulle decisioni degli investitori?
Certamente, le mosse delle grandi aziende influenzano molto gli investitori. Anche questi sono segnali che dicono che l’Italia sta cominciando ad entrare nel radar internazionale dell’innovazione. Gli stranieri riconoscono al nostro Paese la ricchezza di talenti, che è il nostro vero vantaggio competitivo. Abbiamo milioni di giovani bravi, laureati, anche con doppia laurea e master, che sono semi disoccupati o comunque disponibili a mettere a disposizione le loro skill a un terzo di quanto costerebbe un loro pari nella Silicon Valley. Nello stivale ci sono talenti, idee, innovatori… è un posto in cui vale la pena investire.

L’Italia è ancora il fanalino di coda in Europa, dietro a nazioni come Francia e Inghilterra, senza contare gli Stati Uniti. Da cosa dipende il nanismo degli investimenti in Italia?

Dipende dalla nostra storia e dalla bolla della new economy, che è scoppiata alle porte degli anni 2000 facendo sparire i venture capital che stavano portando nel nostro Paese quello che in Silicon Valley c’è da 40 anni. Se tra il 2000 e il 2005 la parola startup in Italia non era quasi neanche nominata, all’estero non è stato così. Nel campo dell’Ict abbiamo perso cinque anni di mercato. Siamo oggi dove gli altri erano 15 anni fa.

Gianluca Dettori


Gianluca Dettori: “Guardare al futuro senza paura di sbagliare” - Ultima modifica: 2016-11-15T08:36:29+00:00 da Francesco Marino

Giornalista esperto di tecnologia, da oltre 20 anni si occupa di innovazione, mondo digitale, hardware, software e social. È stato direttore editoriale della rivista scientifica Newton e ha lavorato per 11 anni al Gruppo Sole 24 Ore. È il fondatore e direttore responsabile di Digitalic

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