#SocialOrg: “Smartizzare” le organizzazioni

La proliferazione della parola Smart ci induce a pensare che questo concetto sia ormai molto chiaro, sia a coloro che devono promuovere progetti, sia a coloro che ne sono in qualche modo destinatari. Ma lo smartworking è un concetto sistemico e, come tale, capace di contenere molti elementi

#SocialOrg

di Alessandro Donadio

La proliferazione della parola Smart ci induce a pensare che questo concetto sia ormai molto chiaro, sia a coloro che devono promuovere progetti, sia a coloro che ne sono in qualche modo destinatari. Ma lo smartworking è un concetto sistemico e, come tale, capace di contenere molti elementi declinabili in decine di diverse soluzioni.
Lo smartworking immagina un mondo in cui le persone possono operare in condizione di scelta fra dentro e fuori, fisico e virtuale, task e obiettivi, rendendo le aziende luoghi aperti nel vero senso della parola.
La sostanza di questa rivoluzione nel mondo del lavoro ha però un corollario, forse una vera premessa, nella #socialorg: rendere le organizzazioni sufficientemente smart da poter sostenere questo cambiamento epocale.

Le 4 P della smart organization
La socialorg è smart nella sua natura di fondo. Come abbiamo spesso detto, abilita connessioni, accessi, scambi, collaborazione, in modo massivo ed esteso.
Per fare questo, le tecnologie diventano essenziali, ma ancora prima i modelli di leadership sono l’abilitante strutturale per arrivare a questo risultato.
La socialorg è quindi smart nella misura in cui le componenti delle organizzazioni sanno entrare in sinergia forte, consentendole di creare valore.
Ma quali sono queste componenti?
Un modo semplice per sintetizzare la smart organization è il modello delle 4P:
– People
– Process
– Platform
– Place


Smart people

La persone, ricordiamoci sempre di partire da qui, sono un componente delle organizzazioni, ma anche gli attivatori stessi. Ecco perché nessun progetto di cambiamento organizzativo, come quello di “smartizzazione”, può passare altrove rispetto a qui.
La persona è peraltro già smart, capace cioè di utilizzare strumenti e risorse per ottenere risultati. Anche se un training sulle nuove tecnologie può essere importantissimo per mettere in condizione le persone di agire nella socialorg. Perché rimanere connessi? Perché collaborare? Perché lavorare anche fisicamente fuori dall’azienda? Perché andare verso un modello di organizzazione che si libera del vincolo fisico? E soprattutto, perché imbarcarsi in progetti che stravolgono il loro modo di lavorare? La smart organization chiede che si operi con le persone proprio per costruire questo senso, ben prima che si acquistino costosissime tecnologie.

Processi smart
Persone smart, organizzazioni stupid. Un po’ è così, diciamocelo. Processi, gerarchie, burocrazie organizzative sembrano andare nella direzione di annichilire quella capacità di creare, risolvere problemi, fare innovazione, così innate nei contesti umani. In effetti, persone abilitate e attivate devono poter agire in ambiti in cui i processi semplificano e agevolano questa predisposizione di base.
Le procedure nella smart organization devono ridurre le escalation verso l’alto, consentendo alle persone di interagire in via autonoma, anche se visibile, promuovendo interazione continua.
Non è così banale questo punto. I processi seguono logiche di design che sono molto precedenti a quelle utili alla socialorg, tutt’altro che smart, in effetti.
Così la employee experience potenzialmente abilitata dalle tecnologie di conversazioni, finisce per essere frenata da meccanismi non adattati.

Smart platform
Il punto non è tanto la disponibilità di tecnologie smart, quanto la reale e consapevole capacità delle aziende di approvvigionarsene al meglio. Piattaforma inteso in senso ampio: ambienti digitali, software, cloud, data management system. Serve un ecosistema tecnologico, capace di portare l’azienda sul palmo della mano della persona. Questo perché la remotizzazione avviata dallo smart working rischia di diventare un bagno di sangue in termini di conservazione dei livelli di performance e produttività. Pensiamo a quanto può costare una mancata capacità delle persone di accedere ai contenuti che servono per lavorare. In questo senso, la consapevolezza generale del management deve elevarsi, perché non si tratta solo di una materia IT, ma di tutti i soggetti che la dovranno utilizzare e far utilizzare ai propri collaboratori

Smart place
Chi ha creduto che lo smart working avrebbe distrutto “fisicamente” le aziende, deve oggi ricredersi. Non sono poche le persone che in piena digitalizzazione domandano un recupero del luogo fisico aziendale. Le ragioni sono intuitive: stare insieme conta eccome. Noi siamo corpo insieme a mente.
L’interazione fra fisico e digitale crea un’esperienza nuova e gradita per le persone, che possono trovarsi in una sala meeting per parlare, accedendo a contenuti che sono in cloud, collegandosi con altri che sono altrove. Questo metamondo che si crea è utile, efficace, gradito.
Allora gli spazi fisici cambiano e diventano abilitatori. Pensiamo ai trend costruttivi attuali nelle aziende, in cui si allestiscono luoghi fisici di collaborazione informale, in cui le persone si muovono in libertà, così come gli oggetti che sono nella stanza (tavoli, ripiani, sedie).
Questo diventa un settore interessantissimo di rinnovamento delle organizzazioni, a patto che si mettano in campo tecnologie che aiutino le persone a collegarsi, conversare, collaborare.

Smart organization design
Un progetto smart, quindi, opera su tutti questi fattori insieme, se vuole centrare l’obiettivo. Un buon design è necessario e si basa sulla condivisione della visione con le persone e il chiedere la loro collaborazione nel realizzarlo. Chi ha lavorato così, ha vinto la sua battaglia di cambiamento nello smart working.

#SocialOrg


#SocialOrg: “Smartizzare” le organizzazioni - Ultima modifica: 2016-11-15T14:00:17+00:00 da Francesco Marino

Giornalista esperto di tecnologia, da oltre 20 anni si occupa di innovazione, mondo digitale, hardware, software e social. È stato direttore editoriale della rivista scientifica Newton e ha lavorato per 11 anni al Gruppo Sole 24 Ore. È il fondatore e direttore responsabile di Digitalic

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