Era il 1966 quando il canadese Douglas Parkhill pubblicò il libro “The Challenge of the Computer Utility” (Addison-Wesley editore) che anticipava le caratteristiche del moderno cloud computing
Nel suo lavoro Douglas Parkhill ha anticipato molte delle caratteristiche proprie del cloud come lo intendiamo oggi: l’utilizzo flessibile degli strumenti, come utilities, l’illusione a risorse infinite, dove la potenza dei calcolatori e anche specifiche applicazioni potessero essere vendute secondo il modello economico dell’utilità (come succedeva per acqua, elettricità, gas e telecomunicazioni).
Anche se per sentire il termine cloud computing utilizzato pubblicamente per la prima volta bisognerà aspettare il 1997, ad Harvard, per bocca del professor Ramnath Chellappa.
Il paragone con l’approvvigionamento dell’elettricità e delle risorse pubbliche era molto popolare alla fine degli anni sessanta (anzi, il concetto risale al 1955), ma scomparì intorno alla metà degli anni settanta, quando divenne chiaro che l’hardware, il software e le telecomunicazioni del tempo non erano pronte. A partire dal 2000, l’idea è tornata in superficie in nuove forme.
Con il modello Utility Computing le aziende – spiega Parkhill – acquisiscono servizi IT solo nella misura e nel momento in cui servono. L’Utility Computing avrebbe facilitato l’agilità e l’integrazione tra le risorse IT, riducendo i costi in ottica “on demand”.
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