Editoriale di Francesco Marino
Si chiama Cloud, alcuni (non si sa bene per quale motivo) la chiamano “la cloud” attribuendo alla parola inglese il femminile della traduzione italiana. Ma a parte i virtuosismi linguistici tricolori rimane da chiedersi perché questa tecnologia si chiami Cloud, ovvero nuvola.
All’origine, ovviamente c’è un nerd. Quando si disegnavano le reti l’obiettivo degli ingegneri era quello di tracciare uno schema preciso di quali dispositivi fossero collegati nelle rete e in che modo. Solo che a volte il network aziendale si connetteva a reti di altri o ad Internet e il povero ingegnere non sapeva come fossero strutturate quelle reti, allora (nel dubbio) disegnava una nuvoletta che significava sostanzialmente: “qui c’è una rete ma non ho idea di come sia fatta”. Che la tecnologia più ammirata di questi anni prenda il proprio nome e il proprio simbolo dalla sua indeterminatezza, può non essere rassicurante.
Il cloud funziona e non si sa perché, o almeno non si sa esattamente come (questo vuol dire il suo simbolo); ma non è un male. Non sempre è utile avere una conoscenza dettagliata degli strumenti che ci permettono di realizzare i nostri obiettivi, non serve se dobbiamo usarli e non ripararli, modificarli o integrarli. Come semplici utenti meno ne sappiamo e meglio è, a patto che tutto funzioni e che il contratto con i suoi livelli di servizio venga rispettato.
Se invece quella nuvola la vogliamo creare noi o la vogliamo realizzare per altri le cose cambiano.
Si scopre che la leggerezza del Cloud (per gli utilizzatori) è possibile grazie al metallo pesante dei server e delle connessioni che le danno vita. Potete ammirare uno dei datacenter di Google in questo numero (giusto per averne un’idea) che non è neanche tra i più grandi al mondo.
Indubbiamente il cloud libera le idee perché d auna parte consente a chi lo utilizza di concentrarsi sulla propria attività principale e a chi lo propone consente di inventare nuovi servizi, praticamente senza limiti.
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