Quali sono le persone più a rischio di contrarre il Covid-19? A rispondere alla delicata domanda è un maxi studio genetico pubblicato su Nature, su scala mondiale, basato sui dati di quasi 50mila persone positive al virus e 2 milioni di soggetti sani di controllo.
Sostiene che la ragione dell’estrema variabilità nella reazione individuale al virus SarsCoV2 è scritta, almeno in parte, in 13 regioni del nostro DNA, che aumentano la suscettibilità all’infezione e il rischio di sviluppare forme gravi di malattia.
Risultati, che potranno aprire la strada a nuove terapie, derivati dal “Covid-19 Host Genomics Initiative”, una rete globale di oltre 3mila ricercatori di 25 Paesi creata nel marzo 2020 dall’italiano Andrea Ganna, ricercatore all’Istituto di medicina molecolare della Finlandia (Fimm) e al Broad Institute di Cambridge, insieme al collega Mark Daly.
Al network ha dato un importante contributo anche l’Italia, attraverso i dati di oltre 8mila pazienti e la partecipazione di numerosi enti, come l’Università di Siena, l’Irccs Humanitas e il Politecnico di Milano.
Un riassunto completo dei risultati rivela 13 “loci”, luoghi nel genoma umano, che sono fortemente associati a infezioni da Covid grave. Dei 13 loci identificati finora dal team, due avevano frequenze più alte tra pazienti di origine dell’Asia orientale o dell’Asia meridionale rispetto a quelli di origine europea.
Uno di questi due loci in particolare, vicino al gene FOXP4, è collegato al cancro ai polmoni. La “variante FOXP4” associata a grave Covid-19 aumenta l’espressione del gene, suggerendo che inibire il gene potrebbe essere una potenziale strategia terapeutica. Altri loci includevano DPP9, un gene sempre coinvolto nel cancro ai polmoni e nella fibrosi polmonare, e TYK2, che è implicato in alcune malattie autoimmuni.
I ricercatori hanno anche identificato, e confermato, l’importanza di alcuni fattori causali dipendenti dagli stili di vita, come il fumo e l’alto indice di massa corporea.
I risultati potrebbero contribuire a fornire obiettivi per le terapie future. Attualmente non esistono terapie mirate sull’infezione, a parte gli anticorpi monoclonali.
“Formare questa collaborazione internazionale è stato sorprendentemente facile: è iniziato tutto con un tweet”, ha raccontato Ganna. “Avevamo un network esistente da cui siamo partiti e che si è espanso in maniera molto veloce. Quello che oggi pubblichiamo su Nature è solo la punta dell’iceberg di quanto abbiamo prodotto in questo anno”.
“Abbiamo trovato quattro regioni del Dna che aumentano il rischio di contrarre l’infezione e nove che invece aumentano la probabilità di sviluppare forme gravi di malattia. Alcune hanno a che fare con la risposta immunitaria, ed erano già note per il loro coinvolgimento in malattie autoimmuni e infiammatorie, mentre altre riguardano la biologia del polmone e hanno a che fare con malattie come la fibrosi e il tumore” – ha poi proseguito Ganna.
Foto di Muhammad Naufal Subhiansyah da Pixabay
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