Progresso tecnologico o logiche di mercato? Ecco il fenomeno dell’obsolescenza programmata: prodotti poco duraturi e acquisti sempre maggiori.
Nell’epoca della produzione e del consumismo di massa, l’unico modo per mantenere vivi i mercati sembra essere quello di realizzare prodotti con una breve durata: cos’è l’obsolescenza programmata, le origini di questo fenomeno, e i possibili rimedi.
Nuovo smartphone appena presentato: corse al clic più veloce del web per accaparrarsi la prenotazione online, ed essere tra i primi a poter mettere le mani sul dispositivo più famoso del momento.
Code interminabili ai negozi, piantonati da notte fonda per essere certi di non perdersi il prodotto dei desideri, e poi l’assicurazione, il finanziamento, o il convincersi che in fondo pagandolo poco alla volta non graverà più di tanto sul bilancio personale.
Essere sicuri che è necessario avere il modello più nuovo, più bello, più trendy, per poi ritrovarsi solo pochi mesi dopo con la consapevolezza che quello tra le mani è un modello già vecchio, sorpassato, obsoleto.
Capita a tutti di ritrovarsi in situazioni simili, e non è di certo un caso: i mercati e le società ci impongono un certo modo di pensare e di percepire quanto sia nuovo e necessario un oggetto, per poi smentirci poco dopo e – quasi – indurci ad acquistare un modello più recente.
Questo il concetto che si trova alla base della teoria dell’obsolescenza programmata, una pratica tanto diffusa quanto scorretta che affonda le sue radici nei lontani anni ‘20, e che solo trent’anni dopo gettava le basi per la moderna società dei consumi di oggi.
Indice dei contenuti
Cos’è l’obsolescenza programmata?
Con la dicitura obsolescenza programmata si intende quell’insieme di pratiche atte a rendere volontariamente meno duraturi i prodotti in commercio. In altre parole, quel sistema, attuato dalle società produttrici, che ci costringe a comprare nuovi oggetti anche quando potrebbe non essercene bisogno.
Piuttosto recente è la vicenda che ha visto protagoniste loro malgrado le giganti Apple e Samsung: il garante italiano, in seguito a indagini condotte dall’Antitrust, ha multato le due compagnie a causa di pratiche scorrette.
Nello specifico, Apple è stata accusata di rallentare in modo volontario i dispositivi non più recenti: era dicembre 2017, e dopo svariate segnalazioni di clienti esasperati, è stata gettata luce sul fatto che gli iPhone 6 subissero gravi rallentamenti dopo l’aggiornamento ad iOS10.
Gli smartphone di Cupertino, dopo l’upgrade del sistema operativo mobile, soffrivano di lag, surriscaldamenti, e conseguente batteria meno efficiente.
Il malcontento fu talmente ampio da costringere Apple a dire la verità: era proprio l’aggiornamento all’ultima versione di iOS a penalizzare gli iPhone 6, sia nelle performance che nell’autonomia della batteria.
E anche se Apple più volte ha cercato di spiegare che si trattava di motivi di sicurezza, e che l’abbassamento delle prestazioni era quasi uno step obbligato per mantenere in vita dispositivi vecchi, lo spettro del caso degli iPod è dietro l’angolo.
Correva l’anno 2003, e la breve durata degli iPod sfociò in un generale disappunto, tanto da costringere Apple ad ammettere che le batterie dei suoi iPod erano disegnate per durare non più di 8-12 mesi.
Ma Apple non è stata la sola ad essere punita per aver violato più di un articolo del codice del consumo: Samsung è stata multata per aver costretto gli utenti a scaricare l’aggiornamento di Android sui vecchi Note 4, che ne causava un peggioramento piuttosto evidente nelle prestazioni.
In questi due casi specifici, le compagnie sono state punite per non aver adeguatamente informato i consumatori circa i rischi che si correvano aggiornando all’ultima release disponibile, ma anzi per averli indotti all’upgrade con continue notifiche.
Si tratta soltanto dell’esempio più recente di obsolescenza programmata, per obbligare i consumatori a disfarsi dei vecchi dispositivi, così non più utilizzabili, ed acquistarne di nuovi.
Quando è nata l’obsolescenza programmata
Apple e Samsung sono i due esempi più eclatanti dei giorni nostri, ma in realtà famosi esempi di obsolescenza programmata arrivano fino al 1920.
Un famoso documentario sull’obsolescenza programmata di Cosima Dannoritzer chiamato “Comprar, tirar, comprar” – ovvero comprare, buttare, comprare – rivela il motore segreto della nostra società.
Nel documentario, si spiega come in quell’epoca i fabbricanti di lampadine si impegnavano nella ricerca e nella realizzazione di bulbi il più resistente possibili: fu così che si arrivò alla produzione di un filamento per una lampadina capace di durare fino a 2500 ore.
Ma una così grossa longevità per questo tipo di oggetto, portò ben presto problemi a livello di vendite: le lampadine funzionavano più a lungo, e le persone non avevano bisogno di comprarne di nuove.
Fu nel 1924 che i principali produttori tra cui Philips, Osram e Lamparas Zeta costituirono il cosiddetto cartello Phoebus: si trattava di un accordo di un’associazione mai resa palesemente nota, che serviva ai produttori per non ritrovarsi sul lastrico.
Tra i documenti ritrovati a posteriori si legge:
La vita media delle lampadine di illuminazione generale non deve essere garantita o offerta per altro valore che non sia 1000 ore.
Un limite imposto dall’associazione per garantire la sopravvivenza delle società, dunque, che si occupava anche di multare i membri che violavano le norme.
Ingegneri ed esperti furono quindi costretti ad impiegare capacità e conoscenze per rendere il loro prodotto più scadente: lo stesso accadde per le calze da donna in nylon, che dopo essere state realizzate in modo estremamente elastico e resistente, sono state prodotte con regolarità in modo tale che si rompessero dopo un certo periodo di utilizzo.
Le cause
Sembra superfluo specificare i motivi che possono spingere le aziende a realizzare prodotti di qualità più scadente di quanto possano fare: il motivo, facilmente intuibile, è una questione di mercato. Più gli oggetti si rompono, più siamo costretti ad acquistarne di nuovi, con relativo aumento delle vendite.
E quando gli oggetti non sono ancora giunti al termine del loro naturale “ciclo di vita”, esiste un’altra forma di obsolescenza programmata ancor più sottile: quella psicologica.
Quella, cioè, che induce il consumatore a pensare che un oggetto più nuovo sia di maggiore qualità, può garantire prestazioni ed efficacia maggiore, ed è più sicuro, oltre che più alla moda.
Come combattere l’obsolescenza programmata
Esiste un rimedio affinché l’obsolescenza programmata non continui ad influenzare le persone e i loro acquisti, riducendo il relativo impatto ambientale dato dai rifiuti sempre più difficili da smaltire?
Ognuno di noi può attuare alcuni noti ma importanti accorgimenti, come ad esempio:
- Non cedere troppo spesso al fascino dei nuovi prodotti, e di acquistarne solo quando è davvero utile o necessario:
- Tentare di riparare gli oggetti compromessi;
- Dare nuova vita alle cose.
Sebbene sia difficile evitare di comprare troppo spesso un nuovo prodotto, come ad esempio uno smartphone, dal momento che anche gli sviluppatori di frequente sono costretti ad abbandonare gli aggiornamenti dei software più vecchi, resta comunque possibile tentare delle riparazioni degli stessi.
Recandosi in centri di assistenza autorizzati, spesso ci si ritrova nella condizione che la riparazione sia più costosa dell’acquisto di un nuovo prodotto: in questo caso, e quando possibile, viene in soccorso l’onnisciente mondo del web.
Su internet, infatti, è possibile trovare materiale per riparare oggetti che altrimenti bisognerebbe eliminare, e quando non dovesse essere più possibile, è consigliabile riutilizzare gli stessi per altri scopi.
Sempre lo smartphone, ad esempio, quando ancora funzionante, potrebbe essere trasformato in un mini computer di bordo in auto, con tanto di assistente vocale e riproduzione musicale nell’impianto stereo, o magari una videocamera di sorveglianza per la propria abitazione.
Di necessità virtù, quindi: un po’ di sano fai da te e una buona dose di fantasia, potrebbero riuscire nell’apparente impossibile.