Greenwashing, perché sui social non si possono lavare le apparenze

Greenwashing: molte aziende hanno pensato di raccontare quanto fossero green ma c’è una grandissima differenza tra l’essere green e il fare greenwashing.

ZAC!

di Emanuela Zaccone*

Emanuela Zaccone Negli anni è aumentata la consapevolezza dell’importanza della tutela dell’ambiente e della necessità di riconvertire attività e filiere, con l’obiettivo di ridurre l’impatto ambientale. La Corporate Social Responsibility delle aziende ha cominciato a fare della sostenibilità uno dei suoi focus, mentre il tema ha raggiunto praticamente tutti, grazie anche al potere divulgativo di Internet e dei social media. I social però espongono: non è possibile mentire, non è consigliabile cancellare per coprire i misfatti e non è saggio lanciarsi in proclami senza prima aver dato un’occhiata alla correttezza di quanto accade in casa propria. Quando qualche anno fa i brand sono arrivati sui social media, hanno dovuto fare i conti con un ambiente dialogico, regolato non dall’impulso del momento ma dalla necessità di pianificare contenuti, strategie editoriali e attività di relazione con gli utenti (crisis management incluso).

Raccontare bene

Numerose aziende hanno pensato di raccontare quanto fossero green, salvo poi scontrarsi con la realtà dei fatti. C’è una grandissima differenza tra l’essere green e il fare greenwashing.
Nel primo caso, l’attenzione all’impatto ambientale e l’effettivo rimodellamento delle proprie attività in quest’ottica guida le decisioni aziendali e muta le caratteristiche stesse del brand. Il greenwashing invece è una facciata: si tratta di pubblicità ingannevoli volte a far credere che in effetti ci sia un’attenzione ai fattori citati sopra, quando invece vengono ignorati (quasi) del tutto. Il Greenwashing Index lavora da anni proprio per mettere a nudo queste campagne e ha il merito di farlo non solo in ottica distruttiva, ma anche valorizzando i brand che si comportano correttamente e che, soprattutto, hanno intrapreso un reale cambiamento di rotta, magari dopo qualche errore iniziale. Ulteriore punto di forza: si tratta di una piattaforma in crowdsourcing, quindi tutti possono contribuire all’identificazione e alla raccolta dei casi. Già nel 2010, Matthew Yeoman sul Guardian scriveva che social media e sostenibilità hanno molto in comune, in quanto entrambi sono costruiti su tre pilastri (trasparenza, etica e innovazione) ed entrambi creano e ricevono valore in base alla capacità di creare delle communities.

Cosa fanno i grandi brand

Non è un caso che eBay, qualche anno fa, abbia stretto un accordo con Patagonia focalizzato sul riciclo degli indumenti o che Renault abbia dato voce anche ai suoi dipendenti con Sustainable Mobility. Se gli utenti sono attenti a questi temi, d’altra parte, perché non coinvolgerli? Alcune tra le migliori attività di crowdsourcing di idee sono ad esempio quelle realizzate da Unilever con Sustainable Living Lab e IBM con Smarter Planet. E che ruolo ha chi lavora per l’ambiente? Greenpeace ha trasferito online la stessa attenzione e passione che la caratterizza offline. Così, se Levi’s ha accolto le critiche – dovute all’inquinamento dei fiumi generato dagli scarti dei propri impianti in Asia – e ha effettivamente cambiato rotta, Nestlé si è invece concentrata sulla tutela del brand, ignorando completamente le accuse. Nel 2010, infatti, Greenpeace ha lanciato una campagna di attacco all’azienda per i danni legati agli effetti delle loro attività sulla foresta pluviale. Gli utenti hanno cominciato ad usare un logo modificato del brand (con la dicitura “Nestlé Killer” al posto di “Nestlé Kitkat”) che è stato subito criticato dalla multinazionale. Vi lascio immaginare l’impatto sugli utenti di una presa di posizione volta a dare maggiore rilevanza alla tutela del brand piuttosto che ai danni provocati a flora e fauna nella foresta pluviale. Insomma, i frequentatori dei social non stanno a guardare. Ciò vale per ogni ambito, ancor più per temi che stanno a cuore a molti. Trasparenza, etica e innovazione. Fuori da questi binari, si inquina solo l’ambiente social.

 
*Digital Entrepreneur, Co-founder e Social Media Strategist di TOK.tv
Ha oltre 7 anni di esperienza come consulente e docente in ambito Social Media Analysis e Strategy per grandi aziende, startup e università.
Nel 2011 ha completato un Dottorato di Ricerca tra le università di Bologna e Nottingham con una tesi su Social Media Marketing e Social TV.


Greenwashing, perché sui social non si possono lavare le apparenze - Ultima modifica: 2014-08-12T18:38:20+00:00 da Francesco Marino

Giornalista esperto di tecnologia, da oltre 20 anni si occupa di innovazione, mondo digitale, hardware, software e social. È stato direttore editoriale della rivista scientifica Newton e ha lavorato per 11 anni al Gruppo Sole 24 Ore. È il fondatore e direttore responsabile di Digitalic

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