Made in Italy. La “formuletta” che non farà magie nei tuoi testi

Copywriting: usare la formula made in Italy non basta, per una comunicazione efficace bisogna esplodere, ampliare, dettagliare il concetto

Entro su Google, nella barra di ricerca digito la stringa “Allintext: made in Italy”. Per tutta risposta, Google mi dice che la formula “Made in Italy” è presente in oltre 141.000.000 di pagine. Esatto, hai letto bene: 141 milioni. Sbem! Digitando, a seguire, “allinurl: made in Italy”, scopro che le Url che contengono la medesima formula sono 611.000. Boom!

di Valentina Falcinelli

Cosa significano questi numeri su Made in Italy?

Semplice: i marketers, gli imprenditori in generale sono convinti che sottolineare che i loro prodotti o i loro servizi siano “made in Italy”, fatti in Italia, possa valere loro nuovi clienti, un incremento di fatturato, il miracolo. Italiano, ovvio: il miracolo italiano.

Fratellastri e sorellastre di “made in Italy”, sinonimi gettonatissimi di questa etichetta, sono “100% italiano” (che poi sappiamo bene che “made in Italy” non vuol dire, almeno non sempre, proprio questo. Anzi) e “italian style”.
Ora, quello su cui vorrei ragionare con te in questa sede è l’uso, vuoto, di formule come queste. Non voglio certo demonizzare l’etichetta “made in Italy”, né le sue varianti, ma vorrei far capire, da copywriter e consulente di comunicazione quale sono, che si tratta pur sempre di una semplificazione, se non di una banalizzazione di quelli che potrebbero essere asset ben più specifici per ogni azienda italiana che voglia internazionalizzare il suo marchio e la sua identità.
Mi spiego meglio. Riprendendo uno stralcio dell’interessante pezzo Il valore del brand made in Italy uscito sul sito MercatoGlobale.it:

Il made in Italy come brand

“Il Made in Italy, inteso non solamente come produzione localizzata nel nostro Paese, ma come percezione del prodotto nel suo insieme, rappresenta un asset che ha notevoli potenzialità:

  • il brand Made in Italy è il terzo marchio più noto al mondo dopo Coca-Cola e Visa;
  • secondo dati forniti da Google, tra il 2006 e il 2010 le ricerche online con keyword Made in Italy sono cresciute del 153%.”

Sono due i punti che vorrei evidenziare: 1) il made in Italy è un brand; 2) le aziende spingono sull’uso di questa formula nei loro testi. Forse senza nemmeno avere cognizione di tutto ciò che significhi. Ancora non sono arrivata al nocciolo duro della questione, ma non temere perché ti ci sto portando un passetto alla volta.

Facciamo un altro piccolo passo. Quando si comunica un brand, cosa si fa? Non ci si limita a ripetere mille volte il nome, ma si cerca di trovare i punti di forza, la cosiddetta proposizione di valore (Value Proposition), la Unique Selling Proposition. Si lavora sulla brand identity, sui valori, sulla personalità del brand e sul suo tono di voce. Si cerca, in poche parole, di trovare – e dunque comunicare – tutti quelli che sono i tratti distintivi del brand.
Dire “made in Italy” cosa comunica? Secondo un sondaggio realizzato da Kpmg Advisory, gli stranieri tendono ad associare al made in Italy valori tra cui bellezza, passione, creatività, lusso e, ancora, cultura e qualità. Ecco quindi cosa comunica, in soldoni, l’uso dell’etichetta “made in Italy”.
Tutto molto bello, interessante, positivo ma io, fossi un imprenditore, non mi accontenterei. Perché se altri 141 milioni di aziende come me usano lo stesso identico modo per parlare di sé, vuol dire che io, in automatico, tenderò a confondermi in mezzo a loro, a sparire nel marasma.
Torniamo quindi al discorso che ti ho fatto poche righe prima: l’importanza di lavorare sulla brand identity, con tutto ciò che questa operazione comporta. A questo punto, se concordi con me, dovresti capire che il made in Italy dovrebbe diventare una parte del tutto, e non essere più il tutto.
Diventerebbe qualcosa da (continuare a) comunicare, ma si farebbe – come è giusto sia – concetto da esplodere, ampliare, dettagliare.
Facciamo un esempio. Un imprenditore che vende mozzarella di bufala campana Dop, può continuare a dire che il suo prodotto è made in Italy ma, a mio parere, non dovrebbe accontentarsi di questa comunicazione così scarna.
Nei suoi testi dovrebbe spiegare cosa vuol dire quel valore associato al made in Italy, positivo ma troppo generico, che è “qualità”.
Perché la sua mozzarella di bufala campana Dop è di qualità? Cosa vuol dire “qualità”? Solo scendendo nei particolari, dando informazioni più specifiche e meno astratte di un semplice “made in Italy”, potrà fare la differenza a livello di comunicazione e distinguersi da altri mille imprenditori campani che vendono il suo stesso prodotto. Aggiungo, poi: il giusto tono di voce è quello che ci vuole per definire e rifinire il tutto.

L’uso della frase Made in Italy

Arrivati fin qui spero sia riuscita a farmi capire. Ripeto: non sto demonizzando l’uso della formula “made in Italy”, ma resto fiera e ferma sostenitrice della sostanza. Perché dire “made in Italy”, in fin dei conti, vuol dire tutto (passione, creatività, lusso e compagnia bella), ma non parla davvero di te e di quello che ti rende unico.
Prova a metterci, oltre all’Italy, un po’ più di heart.
Prova a curare i tuoi testi con quell’artigianalità, quell’amore, quella passione che sono tipici di noi italiani, ma che caratterizzano te in modo diverso da chiunque altro in questo Paese.

made in italy pennamontata*Valentina Falcinelli: direttore creativo di pennamontata, agenzia specializzata in copywriting e content marketing, Valentina si occupa di scrittura in tutte le salse. Formazione compresa. Lavora con piccoli e grandi brand per aiutarli a trovare la propria personalità con le parole. Di sé dice: “So scrivere senza guardare la tastiera, ma non so guardare la tastiera senza scrivere”.


Made in Italy. La “formuletta” che non farà magie nei tuoi testi - Ultima modifica: 2017-10-30T08:00:58+00:00 da Francesco Marino

Giornalista esperto di tecnologia, da oltre 20 anni si occupa di innovazione, mondo digitale, hardware, software e social. È stato direttore editoriale della rivista scientifica Newton e ha lavorato per 11 anni al Gruppo Sole 24 Ore. È il fondatore e direttore responsabile di Digitalic

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