Abolito il carcere per i giornalisti che diffamano, ecco perché

I giornalisti che diffamano non vanno in carcere anche se diffondo notizie false, sapendo di farlo. Potrà sembrare strano, ma ci sono motivi ben radicati dietro questa decisione.

I giornalisti che diffamano non vanno in carcere. La Corte Costituzionale si è espressa sull’incostituzionalità del carcere per i giornalisti anche quando diffondono notizie false, anche se maliziosamente diffuse. Potrà sembrare strano, ma ci sono motivi ben radicati dietro questa decisione che, in mancanza di un intervento parlamentare diventerà comunque esecutiva a giugno 2021.

Massimo Rossi, giornalista e Avvocato

Massimo Rossi, giornalista e Avvocato

Forse non tutti sanno chi è che viene internazionalmente considerato “il cane da guardia della democrazia” e chi lo ha così definito. Stiamo parlando della Stampa, obbligatoriamente con la esse maiuscola, e della bella definizione riconosciutale dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo già con una lontana sentenza del 1996 (Goodwin c/ Regno Unito).
La medesima definizione viene ricordata e ribadita nella recente ordinanza del 26 giugno scorso della nostra Corte Costituzionale, che ha di fatto anticipato l’abolizione del carcere per il giornalista colpevole del reato di diffamazione.

Il carcere per diffamazione, incostituzionale per i giornalisti

Giornalisti che diffamano - niente carcere sentenza Corte Costituzionale

Niente carcere per i Giornalisti che diffamano lo afferma una sentenza Corte Costituzionale

A dire dei nostri giudici delle leggi, infatti, la pena detentiva viola in questo caso il fondamentale precetto della libertà di opinione, assicurata in Italia dall’articolo 21 della nostra Costituzione e a livello internazionale dall’articolo 10 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.
Verrà da chiedersi perché mai, se un giornalista sbaglia raccontando un determinato fatto lesivo della onorabilità di qualcuno, così esponendolo alla pubblica gogna, non debba pagare anche con il carcere – come attualmente previsto dalla legge – una volta che si scopra che la notizia era falsa e magari pure maliziosamente diffusa.
La risposta la si trova nella ormai risalente e consolidata giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo in tema di articolo 10 della CEDU, cui peraltro il nostro Paese ha l’obbligo di adeguarsi a norma dell’articolo 117 della Costituzione.
Afferma da sempre la Corte Europea che, se è vero che tutti gli Stati hanno il dovere di porre norme a tutela della reputazione delle persone, ciò non può avvenire con la previsione di una sanzione detentiva, che potrebbe creare un effetto dissuasivo (“chilling effect”) rispetto all’esercizio, appunto, del prezioso ruolo di cane da guardia svolto dai giornalisti soprattutto, ma non solo, in relazione a inchieste che riguardino gli atti di politici, amministratori pubblici e via dicendo.
Quello che, di fatto, secondo questa ordinanza, va ricercato, è un punto di equilibrio e un corretto bilanciamento tra il diritto alla libertà di espressione della libera opinione dei giornalisti, da una parte, e la tutela dell’immagine e della reputazione delle persone dall’altra.
La corte europea ha ribadito in più occasioni questo monito, ritenendo sproporzionata la pena detentiva per il giornalista anche in casi (Cumpn e Mazre c/ Romania) dove un giudice era stato accusato ingiustamente sul giornale di essere un corrotto.
Il suggerimento per un equo contemperamento dei diritti in discussione è stato più volte indirizzato a forme di riparazione che, al posto del carcere, prediligano rimedi come l’obbligo di un’adeguata rettifica, sanzioni pecuniarie a carico dell’editore e provvedimenti disciplinari per il giornalista imprudente e superficiale.

Il Parlamento ha tempo fino a giugno 2021

Questa recente decisione della nostra Corte Costituzionale, però, aldilà dell’indubbia portata sostanziale tesa alla modifica della attuale normativa punitiva del reato di diffamazione a mezzo stampa, presenta una caratteristica peculiare, data dal fatto che i giudici hanno ritenuto più opportuno non decidere subito, concedendo al Parlamento, con “spirito di leale collaborazione istituzionale”, un anno di tempo per intervenire con una legge su una materia tanto delicata.
L’udienza è stata pertanto rinviata con un’ordinanza al 22 giugno 2021. Se nulla avrà fatto il Parlamento a tale data (come purtroppo è facile prevedere), il destino della norma è già segnato e il carcere per i giornalisti verrà tout court dichiarato incostituzionale con sentenza.
Vale ricordare che tale modalità di decisione è già stata attuata dalla Consulta nell’ambito del caso Dj Fabo. Anche in tale occasione i giudici ebbero a concedere, con la loro ordinanza 207 depositata il 16/11/2018, un anno di tempo al Parlamento per regolamentare con una legge ben fatta il suicidio assistito. Trascorso inutilmente il tempo, la Corte ha deciso, con sentenza 242 depositata il 22/11/2019, la incostituzionalità della norma che punisce l’aiuto al suicidio assistito in determinate situazioni.

La Prima sentenza della Corte Costituzionale sui giornalisti che diffamano

Per chiudere mi piace ricordare che la primissima sentenza della neo formata Corte Costituzionale – presieduta nientepopodimeno che da Enrico De Nicola, che era stato il primo presidente della Repubblica italiana – e cioè la numero 1/1956 depositata il 14/6/1956, aveva ad oggetto la dichiarata incostituzionalità della norma di Pubblica Sicurezza che sottoponeva a preventiva autorizzazione la possibilità di diffondere il proprio pensiero tramite la distribuzione e la affissione di stampati e volantini, in spregio al disposto dell’articolo 21 della Costituzione.
Segno che i principi costituzionali continuano da più di 60 anni a restare fermi punti di riferimento per il convivere civile.

di Massimo Rossi


Abolito il carcere per i giornalisti che diffamano, ecco perché - Ultima modifica: 2020-08-23T10:45:24+00:00 da Francesco Marino

Giornalista esperto di tecnologia, da oltre 20 anni si occupa di innovazione, mondo digitale, hardware, software e social. È stato direttore editoriale della rivista scientifica Newton e ha lavorato per 11 anni al Gruppo Sole 24 Ore. È il fondatore e direttore responsabile di Digitalic

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