di Elena Moriondo * Indice dei contenuti Basta video che coprono tutta la pagina, basta rincorrere la “X” che chiude le pubblicità invasive, basta voci esplosive che partano in automatico e fanno sembrare il pc posseduto dal demone dell’advertising. Ciò è possibile grazie a un software che blocca la pubblicità, sia per desktop sia per […]
di Elena Moriondo *
Indice dei contenuti
Basta video che coprono tutta la pagina, basta rincorrere la “X” che chiude le pubblicità invasive, basta voci esplosive che partano in automatico e fanno sembrare il pc posseduto dal demone dell’advertising. Ciò è possibile grazie a un software che blocca la pubblicità, sia per desktop sia per mobile, non è un sogno si chiama adblocker.
L’adblocker è semplicemente un software open source che, installato opzionalmente sul proprio browser, individua le chiamate fatte durante il caricamento della pagina web. Il programma blocca quelle che vengono dagli adserver, cioè dalle macchine preposte al caricamento della pubblicità, ottenendo l’effetto di lasciare vuoto lo spazio dell’adv. Il più famoso è Adblocker Plus e funziona con una lista di domini di adserver (Easylist) che il software riconosce ed esclude.
Gli editori dei siti web possono ottenere che i propri adserver siano esclusi dalla lista, a fronte di un pagamento e seguendo le regole dell’ “Acceptable Ads Program” – definite da Eyeo, l’azienda che produce Adblocker Plus.
La user experience nella navigazione del sito può migliorare molto e rapidamente: la pagina si carica più velocemente, risulta più pulita e si risparmia la banda. Inoltre il software che controlla la pubblicità impedisce che l’utente sia registrato e tracciato quando è online.
Genesi e sviluppo
Il fenomeno ha avuto inizio nel 2002, da un progetto open source del browser di Mozilla che aveva come scopo quello di difendere gli utenti da pubblicità troppo invasive. Negli anni si è diffuso a macchia d’olio: secondo il rapporto sull’adblocking realizzato da Adobe e PageFair (https://goo.gl/DP4Ucu) nel mondo, a metà del 2015 quasi 200 milioni di utenti al mese avevano un adblocker attivo, di cui 77 milioni in Europa.
Sempre nel vecchio continente, la penetrazione va dal 10% della Francia al 37% della Grecia. In Italia il fenomeno non è ancora molto sviluppato: gli utenti che hanno installato un plug in per bloccare la pubblicità sono circa il 13%. Sempre secondo il rapporto di Adobe e PageFair, gli utenti che sono più inclini a utilizzare l’adblock sono quelli dei siti di giochi – che sono tra i più affetti da pubblicità intrusiva – seguiti dagli utenti dei social network e di siti di tecnologia e internet – quelli più consapevoli e avanzati tecnologicamente.
Azioni e reazioni
Tutti si propongono di tutelare gli internauti dalle pubblicità troppo invasive: dai browser come Firefox ai produttori di device come Apple o Asus, fino alle compagnie telefoniche, che alleggerendo la navigazione potrebbero anche proporre tariffe più convenienti. Di pochi, ovvero solo degli editori, sembra invece essere il problema delle perdite economiche derivate dal blocco della pubblicità, che spesso su Internet è la principale fonte di ricavo. Un pensiero che porta i publisher a preoccuparsi della sostenibilità dell’editoria online nel futuro e a pensare a delle contromisure.
Tra gli editori c’è chi ha bloccato l’accesso agli utenti che risultano avere un adblocker installato, come “Bild.de” (www.bid.de).
Se si accede a questo sito oscurando la pubblicità, compare un messaggio che informa l’utente che non può proseguire la navigazione e gli offre due alternative: disattivare il componente del browser oppure attivare un abbonamento a 2,99 euro al mese, che permette di vedere il sito con un bassissimo impatto pubblicitario. Nel caso invece di “The Altlantic” (www.theatlanic.com) non appena si accede a un articolo compare un banner che invita l’utente, riconoscendo l’adblocker, a considerare l’opportunità di abbonarsi o iscriversi alla newsletter.
O ancora “Forbes” (www.forbes.com), rilevando la presenza del software anti-pubblicità, invita l’utente a disattivarlo, altrimenti il sito viene bloccato.
Come ricompensa, viene regalata una versione “ad light” del sito per 30 giorni. Anti adblockers Alcune aziende tecnologiche hanno già pensato a come mitigare l’impatto degli adblocker a supporto degli editori.
Ad esempio, Pagefair (pagefair.com), creato dall’omonima start up nata in Irlanda nel 2012, misura gli impatti economici dell’adblocking sul sito e mostra agli utenti che hanno installato l’adblock una pagina totalmente in linea con le richieste degli standard di “Accetable Ads” di Adblock Plus.
Tra gli anti adblock possiamo ricordare anche Sourcepoint, Yavli, Secret Media e Mezzobit.
Da che parte stare
Così ci troviamo in mezzo al dibattito tra gli internauti – stufi di banner molesti – e gli editori, preoccupati dal possibile crollo dei ricavi pubblicitari legato alla diffusione degli adblocker.
Per rompere questo circolo vizioso, gli editori dovrebbero porsi il problema di come migliorare l’esperienza di fruizione dei propri siti e imporsi delle regole più restrittive sulla compresenza in pagina di più formati intrusivi o di banner con audio in automatico (questa è proprio la direzione proposta dall’Acceptable Ads Program). Ma ciò non è sufficiente, poiché questo sfoltimento dei formati potrebbe portare una diminuzione dei ricavi, realizzati, appunto, solo ogni qualvolta una impression viene visualizzata.
Per fare in modo che il business dell’editoria online continui a essere sostenibile e non totalmente dipendente dalla pubblicità, gli editori dovrebbero pensare a dei modelli di pagamento per le news sul web, riuscendo a cambiare la cultura ormai diffusa che ci porta a pensare che sulla rete tutto sia gratuito. E così il sogno diventerebbe quello di avere un’informazione libera e indipendente dagli investimenti pubblicitari.
* Cammino sempre sollevata da terra – sia per i tacchi sia perché ho la testa fra le nuvole – e adoro la tecnologia perché rende la vita più interessante. Ho imparato a usare il computer da bambina, impallando diverse volte quello del papà, ma sono cresciuta facendo shopping con la mamma. Così, da sempre, lotto perché quello tra tecnologia e femminilità sia riconosciuto come un matrimonio felice.