Simona Maschi ha creato il CIID in Danimarca apprezzato istituto di design. Non smette mai di farsi una domanda “Come la tecnologia può migliorare la vita?
Simona Maschi è una persona accogliente, ti ascolta anche quando parla. È tra i massimi esperti di interaction design, fa ricerca, insegna e studia come il design e la tecnologia possano migliorare la vita delle persone. Perché lei vuole sinceramente migliorare la vita delle persone e non lo si vede solo dai suoi studi, ma da come si comporta, da come parla, come ascolta. È tra i fondatori del CIID (Copenaghen Institute of Interaction Design) un centro di eccellenza mondiale in cui si fa ricerca pura, consulenza e anche formazione con uno dei master più ambiti dagli studenti di tuto il mondo. Lei ha studiato Architettura Milano, per poi contribuire alla nascita della facoltà di Design e a quella del famoso Interaction Design Institute di Ivrea (IDII). Tutto è partito da un negozio di mobili e da una scatola.
Simona Maschi l’intervista
Quale mestiere voleva fare da ragazzina?
Simona Maschi: Sono cresciuta in un negozio di mobili e fin da quando avevo 8 anni gironzolavo e mi davo da fare: coloravo, andavo in falegnameria, ho fatto anche dei piccoli sgabelli e vendevo pure. Ricordo che proprio ad otto anni ho fatto il mio primo contratto: 6 sedie. Quindi ho sempre pensato che avrei fatto, l’arredatrice di interni. Dopo l’università le cose sono cambiate, con il dottorato e l’approdo all’IDII.
Cosa ha rappresentato l’Interaction Design Institute di Ivrea?
Simona Maschi : È stata un’esperienza incredibile, penso irripetibile. Si erano concentrati ad Ivrea un tale numero di talenti e di energie. Sono stata chiamata come professore e credo che quella sia stata un’avventura fondamentale, per molte persone. Poi, dopo la fusione con Domus Accademy, il progetto è cambiato, come le risorse a disposizione e molti hanno abbandonato quell’avventura.
Come ha deciso di fondare il CIID in Danimarca?
Simona Maschi: Poco prima che terminasse l’avventura di Ivrea avevo partecipato ad un convegno “Index: Design to Improve Life”. In quell’occasione aveva parlato un economista del governo danese. Mi aveva colpito molto il suo modo di guardare al design, partendo da una prospettiva economica. Alla fine del convegno ci hanno regalato una scatola che conteneva la documentazione del congresso e i contatti delle persone che erano intervenute, al momento non gli avevo dato molto penso, ma l’ho conservata a Copenaghen a casa del mio fidanzato. In quel periodo si spegneva l’esperienza di Ivrea, dopo 5 meravigliosi anni e avevo altro per la testa. Ho poi sposato il mio fidanzato e avevo già deciso di andare a vivere in Danimarca. Mentre facevamo i preparativi per spostarci nella nostra nuova casa, sono rimasta da sola nell’appartamento ormai vuoto. C’era solo una scatola, quella che mi avevano regalato al convegno; l’ho aperta, ho “preso in prestito” la connessione Wi-Fi da un vicino di casa e ho scritto a quell’economista del ministero. Mi ha risposto subito dicendomi ‘perché non ci vediamo domani al bar?’.
…e di cosa avete parlato?
Simona Maschi: Gli ho parlato dell’idea, che avevo avuto con altri 5 colleghi, di creare a Copenaghen un centro per “l’interaction design” cioè un luogo in cui studiare l’interazione tra l’uomo e le macchine e il dialogo tra gli uomini attraverso la tecnologia. Sono stata incoraggiata a proseguire, abbiamo preparato uno studio in cui si dimostrava che esistevano notevoli potenzialità per un’iniziativa del genere in Danimarca che sapesse sviluppare l’idea nata con l’esperienza di Ivrea e che la portasse ad un nuovo livello. La domanda è stata accolta e il progetto è partito con il finanziamento dello Stato per i primi due anni.
In Italia un’iniziativa del genere sarebbe stata possibile?
Simona Maschi: Sinceramente non lo so, magari sì, con presupposti diversi. Quello che posso dire con certezza è che in Danimarca ci sono stati degli elementi che hanno favorito la riuscita del progetto. Innanzitutto una fonte di finanziamento chiara e puntuale che ci ha permesso da subito di sostenere economicamente tutte le spese dell’avvio. Una logistica molto ben organizzata. La fluidità dell’inglese in questa nazione ha facilitato tutti gli studi di etnografia, in Italia la barriera linguistica avrebbe posto alcuni ostacoli e lo staff non avrebbe potuto essere molto internazionale. Altri elementi ci sono in Danimarca, ma anche in Italia e forse ancora più presenti, come essere riconosciutiti a livello mondiale come una nazione fortemente orientata al design.
Simona Maschi e il CIID
Oggi il CIID non è solo una scuola, ma anche un centro di ricerca e un’azienda di successo che offre la sua consulenza ai brand più prestigiosi. Perché fare tutte queste cose insieme?
Simona Maschi: Per creare vera innovazione non si può solo fare ricerca, perché bisogna essere vicini alle esigenze delle persone e del mercato; ma non si può nemmeno fare unicamente consulenza, perché in quel caso si risponde sempre ad una domanda, e anche la formazione non basta; perché l’innovazione non è qualcosa che compri, non è qualcuno che assumi, non è una cosa che hai fatto una volta: l’innovazione è un comportamento e vive della sinergia tra ricerca, consulenza ed educazione.
Quale sarà lo sviluppo futuro del CIID?
Simona Maschi: Sono convinta che per progettare prodotti e servizi che abbiano un vero impatto sulla vita delle persone devi essere dove sono i bisogni. A Copenaghen rispondiamo alle esigenze della civiltà occidentale avanzata e ricca, ed è magnifico. Ma quale impatto può avere l’innovazione in realtà come l’India, la Cina, il Sud America? Si tratta di un’innovazione differente, non sarà la tecnologia dalle mille funzionalità che utilizziamo in Europa, ma piccole innovazioni che però possono avere un effetto enorme sulle condizioni di vita delle persone. Stiamo già lavorando in India sugli strumenti per la cura del diabete. Questa potrebbe essere l’evoluzione del CIID. Magari aprire anche una sede in Italia, è tanto tempo che mi chiedo quale tecnologia possa davvero migliorare le cose nel nostro Paese. Forse il bisogno più grande che c’è è la trasparenza nella politica, nei processi, magari la tecnologia potrebbe essere impiegata per questo in Italia: per riportare la trasparenza e la fiducia.
Lei studia l’interazione tra gli esseri umani e la tecnologia, ci sono delle differenze tra uomini e donne?
Simona Maschi: Direi di no, se si osservano soprattutto le nuove generazioni. Forse solo in Asia c’è una forte differenziazione estetica degli oggetti digitali indirizzati alle donne. È più interessante soffermarsi sulla curva di apprendimento nell’utilizzo della tecnologia. Oggi, proprio per via della digitalizzazione, il tempo dell’apprendimento non è più una fase, in realtà non termina mai. Da questo punto di vista è interessante studiare la “learning curve” delle persone riguardo a una determinata tecnologia. Ci sono diverse categorie: chi inizia, chi sa usare, chi sa spiegare e chi reinterpreta, trovando nuove modalità di utilizzo. Queste categorie sono indipendenti dal sesso, dall’età, dalle professioni. Credo che il design dovrebbe concentrarsi su questo, perché le persone amano imparare e i nuovi prodotti dovrebbero tenerne conto offrendo tutte le funzioni possibili agli esperti e accompagnando nell’apprendimento gli altri.
Gli studenti arrivano da tutto il mondo per seguire il master in Interaction design del CIID. Cosa vogliono fare dopo?
Simona Maschi: Una cosa che abbiamo notato, soprattutto negli ultimi due anni è che almeno un terzo degli studenti non sogna di entrare in una grande azienda, ma vuole creare qualcosa in proprio. Sono i nuovi artigiani, consapevoli delle proprie capacità e sanno di poter competere sul mercato. È questo i sogno delle nuove generazioni.