Le donne che “programmano” Tokyo, la diversity nel Giappone

A Tokyo parole chiave come “diversità” sono all’ordine del giorno in qualsiasi grande azienda giapponese, ma non sempre agli slogan seguono azioni concrete.

A Tokyo parole chiave come “diversità” sono all’ordine del giorno in qualsiasi grande azienda, ma non sempre agli slogan seguono azioni concrete.

*di Manuel Maiorelli

Nel mondo tech la presenza del genere femminile è fortemente minoritaria non solo nelle posizioni di leadership, ma anche in quelle in cui è richiesta una conoscenza tecnica, per esempio dei linguaggi di programmazione. Tuttavia, a Tokyo vi è un piccolo splendido esercito di donne che, seppur lentamente, cresce all’ombra dei riflettori volgendo lo sguardo verso un futuro fatto di pari opportunità. Si incontrano in piccoli caffè, a casa di amiche o in locali presi in prestito apposta per la serata. Dal pasta party al tacos night, ogni sera è giusta per incontrarsi, mangiare insieme, studiare un nuovo capitolo di programmazione, fare code review, inventare qualcosa di nuovo e se la serata è quella giusta dare vita a una startup.

Women Who Code Tokyo

In particolare vi è un’organizzazione no profit che si impegna a coinvolgere ed ispirare giovani donne ad eccellere nel mondo della tecnologia e perseguire una carriera altrimenti quasi impossibile: si chiama “Women Who Code Tokyo” e vanta centinaia di iscritte, nonostante quello del programmatore sia in realtà un lavoro per maschi, in Giappone. Questa organizzazione a Tokyo è stata fondata nel 2014, in seguito al successo ottenuto dall’istituzione madre (Women Who Code) nata l’anno precedente a San Francisco.

In pochi anni è già diventata una delle più grandi comunità di donne ingegnere al mondo, utilizzando il meetup come metodo per attirare persone aventi interessi comuni, relazionarsi e unire l’utile al dilettevole. I corsi infatti sono tutti gratis, i partecipanti hanno la possibilità di imparare nuovi trucchi sui linguaggi informatici, confrontarsi con altre donne nello stesso campo, coltivare relazioni facendo networking, partecipare ad hackaton, studiare nuovi modi per entrare con successo nel mondo tech.

L’unico requisito è quello di portarsi il proprio laptop. Questi eventi sono inoltre un’ottima occasione per utilizzare e migliorare la lingua inglese, la più usata in informatica.
Iniziative come quella di Women Who Code Tokyo sono tutt’altro che ignorate dalle grandi aziende del settore (soprattutto le straniere). Realtà come Google, Atlassian, IBM infatti contribuiscono nel gestire logistica e infrastrutture per la realizzazione degli eventi, conferenze e meetup. Segnale che forse i grandi big incominciano a vedere nello donne designer e software engineer, risorse preziose per la crescita dei propri laboratori e centri di innovazione. Recentemente, parole chiave come “diversità” sono infatti all’ordine del giorno in qualsiasi grande azienda giapponese, ma non sempre agli slogan seguono azioni concrete.

Le professioni a rischio

Mentre da un lato la digitalizzazione e l’automazione dei sistemi rimpiazzerà un ingente numero di lavoratori (secondo dati divulgati al World Economic Forum 2017 saranno 7,1 milioni in totale, con particolare attenzione verso le donne che purtroppo saranno maggiormente colpite), dall’altro programmatori e software engineer continueranno a godere ancora di un certa tranquillità. Infatti, soprattutto in Giappone, dove il mercato è maturo in campo tecnologico, programmatori e software engineer continueranno a essere le figure maggiormente ricercate dalle aziende.

Ma dato che il tasso di natalità è ai minimi storici e una certa distanza verso politiche di integrazione nei confronti dell’immigrazione persiste (l’immigrazione in Giappone è quasi inesistente rispetto ad altri paesi europei come la Germania o la Francia), secondo gli esperti il paese nipponico si troverà nei prossimi anni a far fronte a un vero e proprio problema di mancanza di forza lavoro, in particolare nei confronti di quelle professioni sopracitate.

Come se non fosse abbastanza, vi è inoltre il problema relativo alla fuga di cervelli all’estero che in questo settore sembrano in aumento. Chi ha le capacità e la fortuna di spostarsi, se ne va spesso in America, dove le opportunità per creare la propria startup e ricevere investimenti da venture capitalist è sicuramente maggiore. Il governo si muove lentamente, e poche sono fino ad ora le iniziative per arginare il problema.

E in futuro?

Se programmatori e informatici saranno per il momento risparmiati dall’ingresso in campo di robot e intelligenze artificiali, la mancanza di forza lavoro spingerà il Giappone a decidere se: importare talenti dall’estero, oppure ricorrere a quelle risorse locali fino ad ora sottostimate, tra cui le donne. Women Who Code Tokyo e altre organizzazioni simili cercano quindi di simpatizzare e spronare le donne che hanno talento o semplicemente interesse nel mondo tech e spingerle a fare carriera nel settore, sperando di essere il motore di un nuovo sviluppo per l’economia. La società giapponese ha sì bisogno di slogan che invochino la diversità, ma soprattutto di azioni che facciano la differenza, in un mondo che continua anche in estremo oriente a essere in maggioranza maschile.

Women Who Code Tokyo

*Nato in un piccolo paese dell’Emilia scopre l’Oriente attraverso la lettura dei grandi viaggiatori del passato. Cercando di seguirne i passi si laurea in Lingue e Culture dell’Asia. Dopo tante avventure nel continente asiatico e attirato dall’intreccio armonioso tra tecnologia, modernità e tradizione si ferma nella punta più estrema d’Oriente: il Giappone.


Le donne che “programmano” Tokyo, la diversity nel Giappone - Ultima modifica: 2017-10-16T06:51:11+00:00 da Francesco Marino

Giornalista esperto di tecnologia, da oltre 20 anni si occupa di innovazione, mondo digitale, hardware, software e social. È stato direttore editoriale della rivista scientifica Newton e ha lavorato per 11 anni al Gruppo Sole 24 Ore. È il fondatore e direttore responsabile di Digitalic

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