Perché ci sono 68 milioni di migranti al mondo

Il cambiamento climatico è una delle principali cause di migrazioni. Non dobbiamo dimenticare che i paesi più ricchi e avanzati non sono immuni al problema.

Il cambiamento climatico è una delle principali cause di migrazioni. Non dobbiamo dimenticare che i paesi più ricchi e avanzati non sono immuni al problema, anche nelle nazioni sviluppate ci sono i migranti che lasciano la propria casa per andare altrove spesso spinti dai cambiamenti climatici e dai disastri che portano.

di Antonella Tagliabue

Ogni minuto, 20 persone nel mondo abbandonano le proprie case. Secondo i dati Unhcr il numero complessivo di rifugiati, sfollati e richiedenti asilo ha superato i 68 milioni di persone, una cifra senza precedenti. L’85% dei rifugiati risiede in paesi in via di sviluppo.
Ma forse non tutti sanno che due terzi delle persone in fuga sfollano all’interno dei propri confini nazionali e quattro rifugiati su cinque rimangono in paesi limitrofi al loro.

Perché le persone diventano migranti

Le cause delle migrazioni sono diverse; non solo le guerre ma sempre di più carestia, siccità e più in generale i cambiamenti climatici.
Per capire di cosa si parla basti pensare al Lago Ciad, la cui portata si è ridotta dell’80% negli ultimi 40 anni. La scarsità di acqua crea 22,5 milioni di profughi ambientali. Un dato da considerare in virtù del fatto che nove migranti su dieci, tra coloro che tentano di attraversare il Mediterraneo, vengono dalla fascia del Sahel, di cui il Lago Ciad è il cardine geografico.
Secondo le ultime analisi di Onu e Banca Mondiale, la difficoltà nel riconoscere il nesso tra cambiamento climatico e migrazione si deve ai cosiddetti “slow-on-set events”, eventi a “lenta insorgenza” come lo scioglimento dei ghiacciai o la desertificazione del suolo.
Ma i migranti non sono e non saranno solo africani e le migrazioni per il clima sono un fenomeno globale.
SwissRe, che si occupa di riassicurazione assumendosi una parte dei rischi delle altre compagnie di assicurazioni, ha stilato la lista delle città minacciate da disastri naturali e climatici: non sono tutte megalopoli del terzo mondo.
In cima alla classifica globale c’è infatti Tokyo-Yokohama (Giappone – 57,1 milioni di abitanti), seguita da Manila (Filippine – 34,6), Delta del Fiume delle Perle (Cina – 34,5), Osaka-Kobe (Giappone – 32,1), Giakarta (Indonesia – 27,7), Nagoya (Giappone – 22,9), Calcutta (India – 17,9), Shanghai (Cina – 16,7), Teheran (Iran – 15,6).
La maggior parte delle aree sensibili alle catastrofi si trova in Asia (la prima città non asiatica è Los Angeles), con una sovraesposizione del Giappone.

I paesi più ricchi e avanzati non sono immuni al clima e alle migrazioni

Recentemente il Guardian ha pubblicato una serie di articoli con i dati relativi all’allontanamento dalle proprie terre e all’impoverimento dovuto alle recenti catastrofi climatiche nelle zone ricche d’America.
E non si tratta solo delle regioni costiere colpite dagli uragani di fine estate, anche se, a titolo di e-sempio, per gli esperti l’isola di Jean Charles in Louisiana si trova a un solo uragano dalla scomparsa e nel Golfo del Messico, dove gli eventi climatici hanno sempre più natura eccezionale, ci sono 4mila giacimenti attivi che forniscono il 76% del carburante USA.
Il problema si presenta anche per le strade di New York.
Gran parte delle abitazioni pubbliche di New York è circondata dall’acqua. Brooklyn è una penisola che durante l’uragano Sandy del 2012 si è rivelata una pianura alluvionale. I valori di mercato delle case sono infatti scesi da allora.
A Red Hook – dove più della metà dei dodicimila residenti sono inquilini della New York City Housing Authority, uno dei più grandi progetti di edilizia pubblica d’America – i moli svaniranno sotto l’alta marea nel 2020. Entro il 2080 con l’alta marea l’acqua sarà nelle strade.
Mentre a Londra, Tokyo, Rotterdam e Shangai si costruiscono barriere anti-tempesta, parapetti, ar-gini e anelli, a New York non ci sono investimenti pubblici. L’effetto più frequente degli uragani in America è che i ricchi possono spostarsi altrove, mentre i cambiamenti climatici colpiscono più duramente le persone a basso reddito.
La Convenzione di Ginevra del 1951 sullo statuto dei rifugiati non contempla la tutela dei migranti climatici, ma secondo il Guardian i prossimi potrebbero avere un passaporto statunitense.
Un dato che ribalta la tradizionale immagine del migrante e dei rapporti di forza tra ricchi e poveri.

Migrazioni per il clima anche nel regno animale

Almeno metà delle orche, spesso identificate come assassine sul modello dell’inglese “killer whale”, sono a rischio estinzione a causa dell’inquinamento degli oceani.
Secondo la rivista Science l’inquinamento da Pcb, sostanze plastiche tossiche messe al bando da decenni ma ancora molto presenti nel mare, è superiore di 100 volte alla soglia di rischio nelle acque intorno ai paesi più industrializzati (Gran Bretagna, Stretto di Gibilterra, Giappone, Brasile, Pacifico Nord Orientale); mentre va meglio per le acque dell’Artico. Le orche sono al vertice della catena alimentare e assorbono tutte le plastiche e le sostanze chimiche mangiate dagli animali più piccoli. Il Pcb danneggia gli organi riproduttivi e l’apparato immunitario e provoca il cancro. La sostanza plastica è stata prodotta dagli anni Trenta per componenti elettrici e vernici ed è stata messa al bando fra gli anni Settanta e Ottanta. L’80% del milione di tonnellate prodotte, però, non è stato distrutto e continua a finire in mare dalle discariche.
Quando le sfide sono globali i rapporti di forza tra poveri e ricchi, dominatori e dominati, sono a rischio, perché viviamo su un unico fragile pianeta, tutti un po’ gazzella e un po’ leone. Dovremmo forse cominciare a correre.

punto g migrazioni riscaldamento globale


Perché ci sono 68 milioni di migranti al mondo - Ultima modifica: 2018-11-14T06:41:32+00:00 da Francesco Marino

Giornalista esperto di tecnologia, da oltre 20 anni si occupa di innovazione, mondo digitale, hardware, software e social. È stato direttore editoriale della rivista scientifica Newton e ha lavorato per 11 anni al Gruppo Sole 24 Ore. È il fondatore e direttore responsabile di Digitalic

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